Prima di tutto, forse è il caso di chiarire il genere del film di Roberto Benigni «La vita è bella». Tradizionalmente è stato definito come una «tragicommedia», anche se sarebbe più corretto definire il film una tragedia ottimista basata su una storia di amore dimenticato.
Ricordiamo brevemente la trama del film. La storia inizia prima della Seconda Guerra Mondiale nell’Italia fascista. In cerca di lavoro in un piccolo paese arriva Guido (Roberto Benigni) e «dalla porta di casa» si innamora di una ragazza di buona famiglia, Dora (Nicoletta Braschi). Dora lo ricambia a tal punto da permettere a Guido di sottrarsi al proprio fidanzamento con un senatore molto ricco e bello. Gli amanti si sposano, hanno un figlio, Giosuè (Giorgio Cantarini), e commerciano tranquillamente nella loro libreria. Ma un giorno Guido e Giosuè vengono mandati in un campo di concentramento, semplicemente perché sono ebrei.
Ed è a questo punto che persone in genere insignificanti — il commerciante e sua moglie — compiono davanti ai nostri occhi imprese morali del tutto paragonabili a quelle del famoso Janusz Korczak. Dora, quando segue volontariamente la sua famiglia in un campo di concentramento, e Guido, che salva il figlio a costo della sua stessa vita.
REGOLE DI SOPRAVVIVENZA
Naturalmente, la tragica esperienza della sopravvivenza nelle condizioni dei campi di concentramento è stata descritta e compresa da psicologi e scrittori in molte occasioni. L’esempio straniero più famoso di tale riflessione è il libro dello psichiatra e psicoterapeuta austriaco Viktor Frankl «Dire sì alla vita. Uno psicologo in un campo di concentramento», realizzato sulla base della propria esperienza triennale nei «campi di sterminio» nazisti, tra cui il famigerato Auschwitz.
Secondo Frankl, le possibilità di sopravvivenza erano più alte per quei prigionieri che trovavano il proprio significato in ciò che stava accadendo loro, credevano nel loro futuro, cercavano di non cambiare se stessi il più possibile, conservavano la loro pace interiore e facevano le cose di propria iniziativa.
Nella letteratura russa, Varlam Shalamov ha lasciato alcuni degli esempi più toccanti della comprensione di ciò che «si può vivere» nelle condizioni di molti anni nei campi di Stalin: «Ho capito che si può vivere di rabbia… Ho capito che si può vivere di indifferenza… Ho capito perché l’uomo vive non di speranze — non ci sono speranze, non di volontà — che volontà c’è, ma di istinto, di senso di autoconservazione — lo stesso inizio di un albero, di una pietra, di un animale».
IL SUO MODO
Guido escogitò un modo tutto suo non solo per affrontare gli orrori della vita nel campo, ma anche per mantenere intatta la psiche del figlio. Guido si assicurò la sopravvivenza psicologica del figlio nel campo. E trovò una soluzione ingegnosa nella sua semplicità e l’unica possibile in questa situazione: iniziò a giocare con suo figlio, trasformando le realtà da incubo del campo in «regole del gioco».
IL GIOCO COME SALVEZZA
Di conseguenza, la partecipazione al gioco è diventata una salvezza psicologica per entrambi. Padre e figlio si sono aggrappati allo spazio del gioco come a una cannuccia, che li ha aiutati a sopravvivere più di una volta.
Vale la pena ricordare che, secondo le leggi dello sviluppo psicologico, il gioco è il «tipo di attività principale» del bambino, quella all’interno della quale è possibile il suo pieno sviluppo. Il gioco non solo «distrae» Joshua dalla realtà del campo di concentramento, ma gli permette anche di sperimentare e comprendere con successo ciò che sta accadendo, cioè di svilupparsi.
UMORISMO
Attraverso l’umorismo, Guido «riporta» il figlio alla normale logica umana. Egli lotta con una realtà mostruosa e illogica. Guido sfrutta magistralmente il fatto che il figlio, data la sua giovane età, ha una normale logica umana in cui può dire con calma: «Sapone e bottoni fatti di persone? Che assurdità!». Così Guido, con l’aiuto del suo senso dell’umorismo e del buon senso, neutralizza di fatto l’effetto corruttore della vita del campo sulla psiche del figlio, livellando il fascismo per il figlio.
Ma ciò che accadde nei campi, nel senso letterale del termine, «non entrava nella testa dell’uomo». Non senza ragione, molti adulti e persone molto intelligenti fino all’ultimo si rifiutarono di credere alla possibilità di uno sterminio sistematico di massa della propria specie, e persino al modo di «produrre senza sprechi». Non senza ragione, come sembrava loro, riferendosi al fatto che «la nazione che ha dato i natali a Goethe, Beethoven e Schiller non può abbassarsi a simili atrocità».
L’OMICIDIO COME LAVORO
Tuttavia, l’inesauribile umorismo di Guido ha un altro compito, già artistico, nel film. La costante comicità e parodia che il protagonista crea per suo figlio a partire dai suoi ultimi sforzi, mette in ombra anche la cosa più terribile: l’ordinarietà del processo di sterminio di massa delle persone.
Il valore speciale di questo film sta anche nel fatto che mostra il campo di concentramento come una «cosa di tutti i giorni». Nessuna scena particolarmente raccapricciante, nessuna «montagna di cadaveri», solo la costante e quotidiana constatazione che alcuni dei personaggi che si intravedono nell’inquadratura non vi appariranno mai più. Il film mostra meravigliosamente ciò che a suo tempo fece inorridire gli psicologi, che subito dopo la Seconda Guerra Mondiale iniziarono a studiare massicciamente il fenomeno del fascismo tedesco, sperando segretamente di scoprire una qualche «follia di massa» nei rappresentanti di questa ideologia e dichiararli pazzi o almeno anormali in qualche modo. Invece, trovarono una psiche umana del tutto normale e la mancanza di rimorsi. Di conseguenza, si scoprì che era possibile organizzare la vita della comunità umana in modo tale che lo sterminio di massa dei propri simili non solo sarebbe diventato un luogo comune, ma non avrebbe causato ai carnefici e alle loro ancelle alcun problema mentale.
ORDINARIETÀ DEL FASCISMO
Un altro aspetto del film che è rilevante oggi deve essere menzionato in particolare. Gli autori del film non ci mostrano volutamente le «difficoltà del tempo di guerra»: la vita dei protagonisti fino al momento del loro arresto scorre, in linea di massima, tranquilla, piacevole, interessante e persino divertente. E solo periodicamente si intromettono «richiami» al fatto che tutto si svolge nell’Italia fascista. E questi «richiami» hanno a volte un carattere molto comico, come nel caso del «cavallo ebreo» dipinto in tinta con l’insalata dai nazisti, sul quale Guido alla fine porta via la sua amata.
Il trucco principale è che il fascismo inizia in modo impercettibile. All’inizio — come buffonate di singoli pazzi, poi — come eventi di massa di persone emarginate, e a un certo punto diventa improvvisamente chiaro che è già diventato un’ideologia di Stato e si hanno solo due scelte: morire o obbedire.
SALTARE DALL’ALTRA PARTE
L’apoteosi della rappresentazione di questa tragica ordinarietà e semplicità della distruzione umana è la scena della morte di Guido, quando, contrariamente a tutte le leggi del genere cinematografico, viene semplicemente portato dietro l’angolo e sparato, nemmeno davanti al pubblico.
Ma i suoi ultimi momenti nell’inquadratura rimangono impressi per sempre nella memoria dello spettatore. Guido, pienamente consapevole di dove viene condotto, riesce anche negli ultimi istanti della sua vita a prendersi cura del figlio. Va a morire con un'»andatura da clown», neutralizzando per il ragazzo il significato terrificante di ciò che sta accadendo e impedendogli così una possibile fuga dal rifugio di salvataggio.
COSA VUOLE UNA DONNA?
Ma vorrei concludere ditirambando Guido su una questione completamente diversa. La sua dote più singolare non sta nel notevole autocontrollo, nel senso dell’umorismo e nella capacità di sacrificio: è anche un uomo di talento. Ecco perché lui, un povero cameriere, riesce a rubare una sposa a un uomo ricco e bello. E soprattutto per questo la moglie lo segue volontariamente in un campo di concentramento. Solo Guido conosce la risposta semplice e corretta alla domanda «Cosa vuole una donna?». Tutto ciò che vuole è essere il centro dell’universo di almeno un uomo. Essere la sua «principessa». E chi, se non Guido, ha sinceramente adorato la sua «principessa» fino all’ultimo secondo della sua vita?