La vita è fortunata

La vita è bella

La felicità (ovvero ciò che gli psicologi, nel loro linguaggio un po’ più specifico, chiamano «benessere soggettivo») è una sorta di norma culturale nel qui e ora. E dove c’è una norma, c’è una pressione culturale.

L’idea che si «debba» essere felici è letteralmente nell’aria. Non ha nemmeno bisogno di prove, avendo preso posto tra le ovvietà. Chi è infelice è un perdente. La sua vita non si è svolta del tutto, anche se ha avuto molti eventi, conquiste, successi: dire della propria vita qualcosa come: «Tutto è stato, ma non sono stato felice» — è, di fatto, cancellarla. E viceversa: se una persona, che ha sofferto molto e ha perso molte persone, dirà della sua vita: «Eppure sono stato felice! — allora l’ha giustificata. A tutte le perdite, le tragedie, le sconfitte è stato dato un significato e sono state costruite nella prospettiva di questo significato.

Si può parlare di una vera e propria tirannia della felicità e, con essa, della «nevrosi da felicità» — la paura dell’infelicità.

L’infelicità — l’assenza di «felicità» — è intesa come incompletezza umana, come incoerenza con alcuni valori molto importanti.

La «felicità», a cui l’uomo è chiamato, appare alle persone sotto diverse maschere: quella a cui siete ricettivi, quella che si rivelerà per voi. Questo concetto generoso ci permette di associarci all’amore romantico, al duro lavoro ascetico, all’indipendenza, al servizio per una causa comune, alla lotta, alla tranquilla solitudine, all’affermazione di sé, all’abnegazione, al denaro, all’onesta povertà, alla salute fisica e alla ricchezza spirituale.

Che cosa si mette nel concetto di felicità? La possibilità stessa di una domanda del genere fa pensare che la «felicità» sia una scatola deliberatamente vuota, progettata appositamente per metterci dentro qualcosa. È quel luogo sacro che non può essere vuoto per definizione, anche se si esclama che la felicità non esiste e che è tutta una finzione. Il «no», dunque, è qualcosa di sufficientemente definito, altrimenti come si può sapere che non c’è? Ciò che è racchiuso risulta, di norma, il più eterogeneo possibile.

La società dei consumi, ad esempio, coltiva nelle persone l’idea che la felicità risieda nel possesso e nel consumo (e, per qualche motivo, nei tranquilli valori familiari strettamente intrecciati con essi). La gente ci crede volentieri. Le società totalitarie indottrinano i loro cittadini che la felicità risiede nel servizio allo Stato e, forse, in una più completa dedizione alla Grande Causa Comune. Anche in questo caso ci credono!

E nessuno di solito si preoccupa del fatto che, a ben guardare, le idee attuali sulla felicità sono molto vulnerabili.

Gli psicologi hanno trovato prove statistiche del fatto che l’aumento del reddito non influisce in modo significativo sulla soddisfazione della vita: per alcune persone, vincere alla lotteria ha semplicemente conseguenze negative, e i ricchi non sono più felici di coloro che hanno un reddito inferiore alla media, anche se, come ci si potrebbe aspettare, i poverissimi sono i meno felici. Le persone meno felici sono quelle che si preoccupano maggiormente delle questioni di denaro e, si deve presumere, viceversa, indipendentemente dal livello di reddito in sé. Nei Paesi ricchi, dove, secondo i sondaggi, il livello di felicità è generalmente più alto rispetto ai Paesi poveri, l’istruzione e l’appartenenza a una certa classe sociale sono molto importanti per la sensazione di «soddisfazione di vita» sinonimo di felicità. Anche dalla presenza di figli in famiglia la felicità, stranamente, non dipende tanto, come comunemente si crede. E sembrerebbe sorprendente: le persone anziane sono di solito più felici di quelle giovani.

Abbiamo anche scoperto che alcuni fattori di felicità-soddisfazione (ad esempio, i tratti della personalità) sono innati e non rientrano nel controllo cosciente. La felicità è stabilmente collegata ad alcune caratteristiche della personalità, come l’estroversione (1) e il nevroticismo (2). Anche lo stile di pensiero è importante: le persone felici hanno quasi sempre un’autostima più elevata, un senso di controllo, ottimismo e senso dello scopo grazie alla presenza di chiari punti di riferimento (qualunque essi siano).

Tuttavia, è possibile lavorare con questi ultimi, cosa che gli psicologi fanno con discreto successo, aiutando i loro clienti a sviluppare quello che viene definito un approccio più «positivo» alla vita (è qui che i clienti vengono coinvolti nell'»industria della felicità», mantenendola in funzione). Qualche anno fa, lo scrittore francese Pascal Bruckner non ha avuto la pigrizia di dedicare un intero libro all’analisi della dipendenza degli europei moderni, tra i quali, è bene ricordarlo, ci siamo anche noi, dalla «felicità». Più precisamente, dalla ricerca ossessiva di essa, dichiarata, nonostante la fatale vaghezza di questo concetto, come il principale valore di vita. Si può discutere su quanto questi valori siano «sbagliati», tanto più che difficilmente troveremo nella storia una società umana i cui valori siano completamente coerenti, non si basino su illusioni non riflesse, non pressino e traumatizzino la persona — quei valori che potrebbero essere pienamente rispettati, e persino senza violenza contro la propria natura. La nostra «ricerca della felicità» non è peggiore in questo senso.

Tuttavia, sembra che Bruckner abbia ragione almeno su una cosa: nella vita ci sono cose più importanti della felicità. Ed è solo grazie a queste cose «più importanti» — qualunque esse siano — che esiste la felicità stessa.

La felicità si raggiunge sempre in modo tangenziale, mai diretto. Apparentemente, per la sua stessa natura, è tale da non poter essere un obiettivo, e non a caso non fa altro che scivolare via, e non a caso continua a rimanere così indefinibile. Quando la felicità diventa un obiettivo, viene facilmente, rapidamente e soprattutto in modo del tutto impercettibile sostituita da qualcos’altro.

In altre parole, se volete tanto la felicità, cercate almeno di liberarvi dal compito di essere felici.